venerdì 26 dicembre 2008

Mirabella Eclano. Convegno studi D. Pasquale Di Fronzo


Mirabella Eclano, Sulle orme del Sacro, Don Pasquale Di Fronzo e il patrimonio artistico-culturale. Convegno di Studio
Mirabella Eclano
SULLE ORME DEL SACRO CONVEGNO DI STUDIOPER ONORARE
D. PASQUALE DI FRONZO
L’infaticabile Don Pasquale Di Fronzo, sacerdote e storico attento alle problematiche irpine, ogni anno ci ha abituati all’appuntamento di un sua pubblicazione, la piccola enciclopedia dell’arte sacra in Alta Irpinia, giunta al suo diciannovesimo volume, non finisce di stupire gli amanti della storia, gli operatori pastorali e i lettori.
Dalla sua Mirabella Eclano, come mentore acuto, continua la sua infaticabile opera di evangelizzazione e promozione culturale.Ogni biblioteca privata e pubblica ha nel suo scaffale i volumi, consultati ed attesi dalla gente.
Dal suo studio della sua casa di campagna, lo storico e il sacerdote, “campione non domo”, è ormai diventato come un fiume che tutto inonda e con paziente e umiltà sa arrivare al cuore della gente, con i suoi scritti forti e di notevole spessore, al centro di tutto l’uomo e il cristiano dalla schiena mai piegata, forte, alla ricerca di fonti e fatti storici ed artistici, che parlano al cuore dell’uomo e che prorompe coma un inondazione benefica per la terra Irpina.
L’Arte Sacra in Alta Irpinia, è una miniera di notizie e di schede storico artistiche dalle più importanti a quelle minori, l’arte sacra diventa così una cattedra di insegnamenti e di curiosità tutte rivolte alla “vera” evangelizzazione e comunicazione sociale.
Conoscendo l’autore come un uonmo che non ama l’elogio ma che gli fa piacere che anche chi opera nel campo della cultura e della promozione, mi onoro di essere discepolo ed amico, ed affido alle colonne di questo blog e giornale, la sincera gratitudine di chi lo ha conosciuto e seguito in tante avventure nella ricerca e nella tutela del nostro patrimonio culturale, religioso ed artistico, che è il prodotto di tanti sacrifici ma soprattutto espressione delle fede dei nostri avi.
E’ con piacere e gioia che partecipiamo noi tutti amici di lunga data al Convegno di Studio: Sulle Orme del Sacro, Don Pasquale Di Fronzo e il patrimonio artistico-culturale che si tiene a Mirabella Eclano il 27 dicembre 2008, la sede è il prestigioso Auditorium dell’Annunziata.
Un intera mattinata dedicata alla figura del notro studioso, ricercatore e sacerdote dalle grandi doti umane e spirituali, la sua una vita tutta impegnata al servizio di tutti, ricordo la feconda missione di parroco a Rocca San Felice, per oltre trentatreenni, Don Pasquale è l’erede della feconda schiera di storici e sacerdoti come D. Vincenzo Maria Santoli, P. Raimondo Guarino, D.Nicola Gambino, per citarne solo alcuni, che hanno fatto la storia e che hanno impegnate tutte le loro energie per la valorizzazione storico-religiosa della nostra terra irpina.
Ecco il programma che si articolerà con il saluto del sindaco di Mirabella Eclano Ing. Vincenzo Sirignano.
L’introduzione è affidata dal prof. Francesco Barra, Ordinario di storia presso l’Università degli Studi di Salerno, tra i più attenti e fecondi storici e studiosi, punta di diamante della nostra provincia.
Il Prof. Gennaro Passaro, docente di storia della Chiesa locale presso l’Isituto di Scienze Religiose “S.Giuseppe Moscati” di Avellino, presenta l’attesa relazione “Don Pasquale Di Fronzo, l’attività storica”.
“Memoria, oblio e luogo” è l’intervento del Prof.
Fausto Baldassarre, docente di storia e filosofia presso il liceo Colletta e l’ISSR “ G- Moscati” di Avellino.
Il dott. Fabio Testa, storico d’arte relaziona su “Arte Sacra in Irpinia e in Europa.
Nella seconda parte viene affrontata la dimensione poetica e la valorizzazione dei beni culturali.
La Porf.ssa Maria Rosaria Di Rienzo presenta: “La poesia educa alla fede”; mentre al Prof. Paolo Saggese, docente di lettere latine e grache presso il Liceo di Nusco, offre una panoramica su: “La valorizzazione dei Beni culturali: bilancio e prospettive.
Esprimiamo il nostro ringraziamento a D. Pasquale con l’augurio che possa continuare ad essere presente nel panorama delle lettere, delle arti con la sua attenta presenza e valido contributo alla valorizzazione della nostra Terra. L’Irpinia
Giovanni Orsogna
PROGRAMMA
Ore 9,30: Saluto del SindacoIng. Vincenzo Sirignano
Ore 9,45: Introduzione:Prof. Franco Barra
ORDINARIO DI STORIA PRESSO L'UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO
Ore 10,00: "Don Pasquale Di Fronzo, l'attività storica" Relazione del Prof. Gennaro Passaro
DOCENTE DI STORIA DELLA CHIESA LOCALE PRESSO L'ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE "S. GIUSEPPE MOSCATI DI AVELLINO
Ore 10,40: "Memoria, oblio, luogo"Relazione del Prof. Fausto Baldassarre
DOCENTE DI STORIA E FILOSOFIA PRESSO IL LICEO "COLLETTA" E L'ISSR "G. MOSCATI" DI AVELLINO
Ore 11,00: "Arte sacra in Irpinia e in Europa" Relazione del Dott. Fabio Festa
STORICO D'ARTE
Ore 11,20: Pausa
Ore 11,30: "La Poesia educa alla fede?" Relazione della poetessa Prof.ssa Maria Rosaria Di Rienzo
Ore 11,50: "La valorizzazione dei Beni culturali:bilancio e prospettive" Relazione del Prof. Paolo Saggese
DOCENTE DI LETTERE LATINE E GRECHE PRESSO IL LICEO CLASSICO DI NUSCOOre 12,10: Dibattito e conclusioni
Libri inediti di D. Pasquale Di Fronzo
"L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume XXI); "II clero altirpino" (II parte); "Ilclero di Mirabella"; "Storia ecclesiastica della parrocchia di S. Maria Maggiore" (gli eventi del 1959-61); "Ritmi" (volume III); "Alcuni fatti storici di Mirabella"; "Storia della mia storia" (riflessioni); "La mia autobiografia"; ecc.Opere edite1961 - "II Carro di Mirabella Belano" (ricerca storico-folcloristica), pp. 16.1966 -"Margherita di Svevia nel castello di Rocca San Felice" (poemetto di 390 endecasillabi sciolti), pp. 16.1971 - "Breve storia delle diocesi dell'Alta Irpinia" (storia ecclesiastica), pp. 52; "I Santuari dell'Alta Irpinia", 'pp. 23.1974 - "Torella dei Lombardi" (profilo storico), pp. 238.1976- "II mio giardino" (37 poesie a verso libero), pp. 32; "lìlago d'Ansante, il santuario di S. Felicita, Rocca San Felice" (guidaturistica), pp. 32.1977- "Vecchio mondo in declino" (saggio sulla superstizione),pp. 88.1979 - "Rocca San Felice nel 1815" (ricerca sugli atti comunali), pp. 52.1985 - "Strascichi della soppressione del convento dei conventuali di Torella dei Lombardi" (saggio documentario), pp. 23.1988 - "Ritmi" (68 poesie nell'arco di quarantanni), pp. 160.1991 - "Incontri" (volume primo di quattro cantiche), pp. 80.1992 - "La chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore inRocca San Felice" (profilo storico), pp. 80; "Incontri" (volumesecondo di quattro cantiche), pp. 96.1993 - "Incontri" (volume terzo di quattro cantiche), pp. 88.1994 - "II clero altirpino nell'arco del secondo millennio" (230profili biografici), pp. 380; "Margherita d'Austria nel castello diRocca San Felice" (570 endecasillabi sciolti), pp. 32; "Incontri"(volume quarto di quattro cantiche), pp. 94; "Ritmi" (50 poesienell'arco di sei anni), pp. 104; "La persecuzione" (apologià), pp.64.1995 - "Incontri" (volume quinto di quattro cantiche), pp.96; "Epigrammi" (200), pp. 48.1997 - "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume primo di 43profili), pp. 212; "Incontri" (volume sesto), pp. 48.1998 - "L'arte sacra in Alta Irpina" (volume secondo di 40profili), pp. 208; "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume terzo di31profili), pp. 212; "Incontri" (volume settimo), pp. 48; "L'artesacra in Alta Irpinia" (volume quarto di 32 profili), pp. 196.1999 - "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume quinto di 20profili), pp. 196.2000 - "II cammino del tempo" (saggio sulle lettere di ClementeFusero a Livio Nargi), pp. 272; "L'arte sacra in Alta Irpinia"(volume sesto di 32 profili), pp. 204; "L'arte sacra in Alta Irpinia"(volume settimo di 23 profili), pp. 204; "Torella dei Lombardi"(profilo storico), II edizione, pp. 204.2001 - "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume ottavo di trediciprofili); pp. 202; "Incontri" (volume ottavo), pp. 48; "Ecce sacerdos"(profilo biografico), pp. 222; "L'arte sacra in Alta Irpinia"(volume nono di 35 profili), pp. 1982002 - "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume decimo di 11profili), pp. 206.2003 - "Vos estis sai terrae" (profilo biografico), pp. 144;"L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume undicesimo di 34 profili),pp. 208; "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume dodicesimo di 12profili), pp. 212.2004 - "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume tredicesimo di12 profili) pp. 214; "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume quat­tordicesimo di 12 profili), pp. 222.2006 - "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume quindicesimodi 11 profili) pp. 192; "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volumesedicesimo di 19 profili) pp. 210.2007 - "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volume diciassettesimodi 16 profili) pp. 200; "L'arte sacra in Alta Irpinia" (volumediciottesimo) pp. 214; "San Modesto" (storia di un'antica località)pp. 400.2008 - "Le investiture e il maggiorasco" (lettera aperta); "L'artesacra in Alta Irpinia" (volume diciannovesimo di 17 profili) pp.204; "L'arte sacra in Alta Irpinia (volume ventesimo di 20 profili)pp. 200.

martedì 15 luglio 2008

Omaggio alla poesia di Pasquale Martiniello

Martiniello e la poesia del Sud

In questi giorni, e durante il mese di ottobre e buona parte di quello di novembre e dicembre, si discuterà, in Irpinia, di poesia, di poesia del Sud, e di come questa poesia possa divenire concretamente oggetto di studio, di riflessione, nelle nostre scuole, in quelle della provincia, in quelle del Sud.

La Scuola, come l'Università, può divenire concretamente il luogo deputato per una riscoperta reale, concreta, di una produzione poetica troppo spesso tenuta ai margini, troppo spesso snobbata, esclusa. Si potrà in tal modo realizzare l'auspicio che più di cinquant'anni fa Salvatore Quasimodo auspicava, ovvero la realizzazione di una "carta poetica del Sud".

In questo ambito, un ruolo può essere svolto anche dalle istituzioni, dalla provincia di Avellino, ad esempio, dalle Amministrazioni comunali, dagli Istituti superiori, dai Dirigenti scolastici e dai Docenti, quindi dagli alunni, che potrebbero riappropriarsi di una loro storia e di una loro identità partendo dalla poesia, partendo da quei poeti militanti, che hanno raccontato il Sud, da quelli più vicini a noi, che ne rappresentano la difficile transizione verso società più moderne e vivibili. Forse, anche in questo modo, si progetta un nuovo Sud, ovvero realizzando nuovi protagonismi, rendendo i giovani protagonisti e consapevoli delle difficoltà che comporta il vivere qui, ma anche della condivisione di utopie che possano condurci al di fuori della crisi attuale.

Insomma, recuperare una stagione meridionalistica ormai relegata ai libri di storia e di politologia significa discutere dei problemi reali del Sud e dell'Irpinia tra la gente, anzi tra le persone e tra i giovani che rappresentano il nostro futuro.

I giovani, in questi giorni di discussione sulla poesia che si svolgono con il "Festival della poesia del Sud", immaginano un nuovo protagonismo, che significa avvicinarsi alla poesia in modo concreto, scrivere poesie, commentarle, scrivere articoli, realizzare filmati, mostre fotografiche, e addirittura inviando e-mail di protesta ai giornali che dedicheranno una scarsa attenzione alla poesia del Sud. Anche questo è un modo buono per far sentire dal basso la voce del dissenso.

Un libro dedicato a Pasquale Martiniello

Ma indubbiamente, perché la poesia del Sud acquisti finalmente una visibilità seppur minima occorre innanzi tutto che si realizzino strumenti di lavoro e di studio moderni e capaci di guidare alunni e docenti nelle pieghe della poesia, e al contempo di suscitare nei media quell'interesse che manca.

In tal senso, un unicum nella storia della poesia irpina, è rappresentato dal volume dedicato alla produzione poetica del poeta mirabellano Pasquale Martiniello, uno dei decani della produzione in versi in Irpinia, autore insigne prolifico e autorevole, la cui voce ha affascinato moltissimi critici e da ultimo Antonio Crecchia, che ha appunto firmato il ponderoso volume L'evoluzione poetica spirituale ed artistica di Pasquale Martiniello. Si tratta di un'opera minuziosa, accuratamente costruita, che ricostruisce l'evoluzione dell'autore lungo i trent'anni e più di scrittura poetica, nel corso dei quali sono state edite ben ventidue sillogi, alcune delle quali veri e propri capolavori, paradigmatici della poesia del Sud.

Martiniello, occorre ricordarlo, ha dedicato buona parte della sua vita alla poesia. La prima raccolta risale al 1976 (Testimonianze irpine), ma in realtà il poeta aveva scritto versi sin dalla giovinezza: buona parte di questa produzione precedente, tuttavia, è andata dispersa irrimediabilmente. Dal 1976, comunque, Martiniello ha intensificato sempre di più il suo 'lavoro poetico', e negli ultimi anni, ossia a partire dal 1995, ha pubblicato raccolte poetiche a cadenza almeno annuale.

Crecchia, con dovizia di particolari e sfruttando tutta la ricca bibliografia dedicata all'autore, ha illustrato questa vasta produzione poetica, la cui prima fase (1976-1980) ha al centro l'Irpinia. Del resto, lo chiarisce da subito il titolo della prima raccolta. In questo torno d'anni il poeta descrive la sua terra, e rievoca un passato più o meno lontano, i fiumi (con toni ungarettiani), le credenze religiose, gli affetti, la fame, la fatica, gli stenti, la guerra, il destino maledetto dell'Irpinia, le donne, l'emigrazione.

In queste sillogi, tra l'altro, comincia ad essere consistente il 'dialogo', che non si interromperà mai, con Dio, e la condanna della triste realtà del Sud. A mo' di esempio, cito l'incipit della poesia che dà il titolo ad una delle raccolte, "Esodo": "Sud / purgatorio di antichi / sospiri / e stanche penitenze. // Offertorio di mésse e ceri / ai santi boss-tutelari. f Sì va da sempre / con barilotti colmi d'acqua / di cisterna / e vino in borraccia, / scorte varie in tanti sacchi / e semenze nelle stive delle tasche ... ".

Con Lacrime sulla soglia (1982) ha inizio la seconda stagione della poesia di Martiniello. La prima parte della raccolta, infatti, presenta uno stile ancora piano e semplice, mentre la seconda – Terremoto nell'anima (alle vittime del 23 novembre 1980) – si caratterizza per uno stile nuovo, per metafore e immagini cupe, dolorose, violente: ad esempio, "Un branco / allupa" (La follia), "la terra s'intigra" (Sulla guancia). Opportunamente, Giuseppe D'Errico, nella prefazione, annota: "Il Poeta usa le cose come simboli di un discorso tutt'affatto umano, e i sentimenti cala, per così dire, in un realismo magico e tragico insieme. Ne nasce uno stile aspro ed essenziale, in cui il dialogo segreto con le cose e con la vita si fa vibrante di immagini e le parole sono scandite con lucida intelligenza espressiva, ma non isolate e disperse".

Rispetto alla prima stagione, l'altra novità è rappresentata dall'ampliamento – per così dire – del panorama di riferimento: la raccolta inaugurale era legata all'Irpinia (significativo è il titolo "Testimonianze irpine"), con quelle del secondo periodo affronta il "problema Italia" nel suo complesso ("Vipere nello stivale"), o amplia ulteriormente l'ottica (Il lamento di Gea, 1989). Con L'ora della iena (1993) si chiude questa seconda stagione: i toni diventano ancora più cupi e pessimistici, il poeta esprime adesso il suo dolore per un mondo "di mostri e di iene" che "dilaniano la sua anima". Questo libro – specchio del clima di Tangentopoli, che dominava allora in Italia – testimonia anche la crisi dell'intellettuale, che esprime per la prima volta in modo pieno la sua indignatio dinanzi ad una classe dirigente famelica e corrotta.

Con il 1995 si apre la terza stagione della poesia di Pasquale Martiniello, il periodo della memoria e del culto del passato. In realtà, il motivo era già presente nelle sillogi precedenti, ma adesso, in particolare con un capolavoro nel genere (I canti della memoria), la rievocazione del passato viene collocata in uno spazio atemporale, che rappresenta anche una fuga dal mondo contemporaneo. Con acume, ha infatti scritto nella Prefazione Aniello Montano: "La lettura delle liriche di Pasquale Martiniello, I canti della memoria, ha l'effetto di trasportarci in un tempo e in un clima spirituale lontani, lontanissimi, dal mondo disumano e disgregato in cui viviamo, fuori dal nostro mondo roboante e turbinoso, tronfio e altezzoso, ma povero di umanità e di spiritualità". Più oltre, ancora acutamente, Montano cita Esiodo: in effetti, Martiniello può essere paragonato al grande poeta di Ascra per lo straordinario amore che prova verso la civiltà contadina.

La riflessione di Montano è condivisibile anche quando sottolinea come il poeta abbia voluto – allo stesso modo degli altri poeti della `linea meridionalista' – tentare la fuga dal mondo dei suoi avi, e come alla fine di questa fuga abbia desiderato il ritorno: "La fuga, Martiniello, l'ha realizzata. Ma, con il tempo, s'è accorto di essere rimasto legato a quel luogo e a quella cultura con una sorta di invisibile elastico.

Più egli fugge, più tende l'elastico, più e violentemente ritorna al luogo da dove era fuggito. E, per Martiniello questo riorno non è una punizione. È una speranza e un progetto, perlomeno ideale!"

L'ultima – per il momento – stagione della poesia di Martiniello è quella più pienamente satirica, indignata, "politica", barocca, e sperimentale, ed è inaugurata da I lunatici (1999). Opportunamente, proprio nella Prefazione a questo libro, Antonio Crecchia già aveva scritto: "Martiniello, a ben considerarlo, è una specie di Giano bifronte, con uno sguardo rivolto al passato, alla storia, alle civiltà letterarie classiche e moderne, al mondo dei valori etici tradizionali [...] e con un altro rivolto al presente, all'attualità, alla cronaca, alla quotidianità degli eventi, all'evolversi incontrastato dei mali cai3cerogeni del nostro tempo, che si prefigurano come programmati e veicolati da menti diaboliche e folli: una specie di maledizione planetaria che l'umanità non sa scrollarsi di dosso. Non vi è fenomeno sociale, politico o di costume che sfugga all'attenzione del Nostro: la sua riflessione tocca una tale messe di temi per cui è facile intuire il suo minuzioso lavoro di raccolta dei dati, ora fornitigli dalla memoria, ora dalla vita vissuta, ora dai più svariati mezzi di informazione".

Questa vena satirica, che ricorda Giovenale, è presente in Radici (2000), La vetrina (2001), Ossimori (2003), e si accentua ulteriormente in il Picchio (2003), La zanzara (2004) e i Ragni (2005), e quindi nelle ultime Occhio di civetta e Le faine.

Di fronte al disfacimento della società moderna, di fronte al regresso morale e alle piaghe di questo mondo corrotto e malato, Martiniello, paragonandosi al picchio, si autorappresenta in questo modo: " ... Io attizzo col verso acre / ragnatele di coscienze degradate / gli stucchi e í trucchi del políticare ...".

Martiniello poeta italiano

Inoltre, Crecchia raccogliendo tutta la bibliografia dedicata a Martineillo, rivela, qualora ve ne fosse stato bisogno, il carattere nazionale di questo autore, a cui hanno dedicato pagine di studio critci del calibro di Giorgio Bárberi Squarotti, Francesco D'Episcopo, Ugo Piscopo, Giuseppe Giacalone, Luigi Fontanella, Pasquale Maffeo, Alberto Mario Moriconi, Plinio Perilli ...

Insomma, Martiniello potrebbe essere uno dei poeti, che le scuole irpine potrebbero adottare, e così contribuire a realizzare quella "carta poetica", di cui il Sud ha bisogno e che anche Alberto Asor Rosa ha da molti anni auspicato.

FONTE;

http://www.literary.it/dati/literary/altri/levoluzione_poetica.htm

martedì 8 luglio 2008

Aeclanum. Scoperta archeologica.

RIEMERGE NEGLI SCAVI DI AECLANUM (AV) UNA STATUA MARMOREA
Segnalo l'ottimo sito delll'archeomail del gruppo archeoligico della Campnaia, senpre attento alle segnalazioni e sviluppi dell'archeologia.
"Potrebbe essere di un imperatore romano la statua marmorea rinvenuta, in questi giorni, ad Aeclanum, durante la campagna di scavo finanziata dalla «Sergio Tacchini» e condotta dalla Soprintendenza archeologica di Avellino-Benevento-Salerno. Il manufatto, che si presenta senza la testa e senza le gambe, risponde alle caratteristiche tipiche del periodo che si riferisce al II secolo dopo Cristo. A prima vista, si riconosce un mantello, che probabilmente doveva essere anche dipinto, e la posa, che è molto simile a quella di altre statue di imperatori romani. Sul braccio sinistro cade la toga, mentre il destro, che doveva essere elevato in alto, in segno di comando, sfortunatamente manca. Il responsabile della Soprintendenza, Pierfrancesco Talamo, non si sbottona in proposito rinviando ad ulteriori studi la individuazione del personaggio rappresentato. Anche l'archeologo Roberto Esposito, direttore degli scavi e scopritore della statua, preferisce non pronunziarsi. Quando gli viene fatto il nome di Traiano, non tradisce emozioni e ripete che saranno necessari altri accertamenti prima di dare un nome a quel marmo. Nei pressi della statua, è stata rinvenuta anche una fontana monumentale fatta di nicchie semicircolari alternate a nicchie rettangolari. Lo scavo, che resta in corso, condotto all'interno della cinta muraria dell'antica città irpina sulla via Appia, sta fornendo eccezionali testimonianze sulla storia di Aeclanum. Sta mostrando come doveva essere l'abitato in epoca tardo-antica. Nella zona di scavo, le abitazioni e le strade sembrano ricoperte da resti di pomici dell'eruzione del Vesuvio del 472 dopo Cristo. Se questo fosse vero, vorrebbe dire che già in quell'epoca la città era in fase di abbandono. Diventerebbe reale l'ipotesi che sia stata gravemente danneggiata dal furioso terremoto del 346 d.C. e successivamente rasa al suolo dal sisma del 375."

lunedì 12 maggio 2008

Antologia eclanese: Visita alla città di Aeclanum











Breve Antologia eclanese


Aeclanum, strada romana e abitazioni
L’ottimosito http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Sanniti/Sanniti-indice.html fa un’ottima descrizione del sito della città eclanese in Irpinia. Volgiamo riproporre la lettura con l’invito a visitare il Parco Archeologico, dove sono in corso ulteriori scavi archeologici da parte della Soprintendenza ai Beni Archeologici delle Provincie di Salerno e Avellino, diretta dal nuovo Soprintendente Dott.ssa Maria Luisa Nava.


“AECLANUM

In località Passo di Mirabella, frazione della città di Mirabella Eclano (AV), sono visitabili gli scavi dell'antica città di Aeclanum, uno dei principali centri della tribù sannita degli Irpini.

L'archeologo Italo Sgobbo rinvenne, negli anni 30, quattro monumenti epigrafici oschi: uno riportava il nome Mamers (nome osco del dio Marte), un altro rappresentava un'ara di tufo dedicata alla dea Mefite (oggi al Museo Nazionale di Napoli) e facente parte di un luogo sacro collocato fuori dalle mura cittadine e sulla Via Appia, un terzo indicante una non meglio identificata costruzione ordinata da Magio Falcio ed un quarto pertinente al culto del dio Fauno.















Aeclanum - Strada romana ed abitazioni.








La via Appia e la necropoli orientale.

La città di Aeclanum, in età romana, aveva la forma di un corimbo ed un'estensione di 18 ettari, era difesa da una cinta muraria lunga 1820 mt. e costruita in opus reticulatum a prismi di travertino e di arenarie compatte.

Le mura si ergevano per oltre 10 mt. ed erano interrotte da almeno tre porte delimitate ai lati da torri quadrate (turres), di oltre 5 mt. per lato, mentre ogni 20 mt. erano presenti torri più piccole (hemiturres), di 2,5 mt. per lato, che non superavano in altezza, come le più grandi, le cortine murali (perciò definite "turres aequae qum moiro", cioè "torri alte quanto il muro"). Lo spessore delle fortificazioni è compreso, nei vari punti, fra 2,12 - 2,40 mt.

Attraverso la porta occidentale entrava in Aeclanum la Via Appia, proveniente da Benevento, e ne usciva attraverso la porta orientale. Al tempo della Guerra Sociale (89 a. C.), Aeclanum era protetta soltanto da una cinta di legno, incendiata poi da Silla quando, resosi conto che gli eclanesi aspettavano aiuto dai Lucani, ordinò di accastare intorno alle mura fascine di sarmenti, bruciate dopo che trascorse il tempo concesso dal dittatore per arrendersi. Aeclanum infatti fu saccheggiata ed occupata

Strada romana con impronte di carri.

perché non si era arresa spontaneamente ai Romani ma anche per convincere le altre città irpine ancora insorte a deporre le armi.Dopo la Guerra Sociale, circa nell'87 a.C., la città divenne municipio con diritto di voto ed iscritta alla tibù Cornelia. Più tardi, all'epoca dell'imperatore Adriano (all'incirca nel 120 d. C.), assunse lo stato di colonia con la denominazione di "Aelia Augusta Aeclanum".


Aeclanum - Le Terme.


Altre strade, oltre l'Appia, interessavano Aeclanum ed il suo territorio: la via Aeclanum - Aequum Tuticum che la collegava alle Puglie, la via Herculia che attraversava la parte orientale della giurisdizione eclanese e la via Aurelia Aeclanensis che procedeva in direzione di Ordona.Al periodo romano, per lo più imperiale, risalgono la costruzione ed il rifacimento di opere pubbliche come le Terme, il Macellum, il Gimnasium, il Foro, l'Anfiteatro, il Teatro ed il "forum pecuarium" (mercato del bestiame da pascolo).




Aeclanum - L'area del macellum.

Il Macellum (mercato coperto), posto probabilmente nelle vicinanze del foro, presenta attualmente una piazzetta centrale rotonda ed una vasca che forse era adornata da un zampillo; la tholus macelli è costituita da alcuni pilastri in opus vittatum e la pavimentazione arricchita dal marmo. Le Terme sono il monumento di maggior rilevo degli scavi: la tecnica di costruzione è in opus mixtum e sono rintracciabili gli ambienti del tepidarium, del calidarium e del frigidarium.


Aeclanum - Domus di tipo pompeiano.


Nell'area delle Terme fu rinvenuta una pregiata statua marmorea raffigurante Niobide ed oggi collocata in una sala del Museo Irpino di Avellino, ove sono esposti numerosi reperti provenienti da Aeclanum. In un'altra occasione fu raccolta un frammento di statua di Arpocrate, datata al II secolo d.C. e che rappresenta il dio fanciullo con il corno dell'abbondanza.

Tra le abitazioni private ben visibile è una domus di tipo pompeiano, che in epoca tarda è stata convertita ad officina per la lavorazione del vetro. Di rilievo sono, inoltre, i resti di una Basilica paleocristiana con fonte battesimale (baptisterium) a forma di croce greca, con tre scalini sui quattro lati e rivestita in origine da marmo (un altro battistero simile a quello di Aeclanum è di pertinenza della città di Venosa). La Basilica era a tre navate e, fosre, con un portico sul davanti (nartece).

Il battistero della basilica paleocristiana.

Ad un livello inferiore rispetto all'edificio religioso fu scoperto un ambiente con quattro otrii giganti (dolii), adoperati per la conservazione delle derrate alimentari.Sicuramente Aeclanum rappresentò una delle principali città del Sannio Irpino. Lo stesso
Silla, dopo l'assedio di Pompei, si diresse direttamente contro la città,

incurante di altri centri urbani come Nola o Abellinum, che erano sul tragitto. Si presume che possa aver ricoperto il ruolo di capitale sannita all'epoca della Guerra Sociale e che la popolazione contò sui quattro-cinquemila abitanti quando assunse il ruolo di colonia ed il suo territorio superò l'estensione di 700 kmq.Nel 369 d.C. un violento sisma colpì Aeclanum con conseguenze disastrose: in un'epigrafe Umbonio Mannachio, di rango senatorio, è definito "fabbricatore ex maxima parte etiam civitatis nostrae".




Aeclanum - Base per fistule di torchio.

Più tardi, nel 410 d.C., il passaggio di Alarico e dei Visigoti dalla Campania alla Puglia arrecò ingenti danni alla città. Fu coinvolta nelle guerre tra i Goti e i Bizantini nel VI secolo d.C., finchè l'arrivo dei Longobardi (570 d.C.) ed il transito dell'imperatore Costante II di Bisanzio, diretto all'assedio della longobarda Benevento, soffocarono sotto un velo di distruzione le ultime tracce del passato romano.


Veduta della zona delle terme.


Al di fuori del circuito cittadino di Aeclanum, si possono ammirare ancora i resti di un edificio pubblico (dall'ignota funzione) con mura in reticolato e laterizio nel sito della chiesa di Santa Maria di Pompei crollata dopo il sisma del 1980.



Da ammirare inoltre, parte di una necropoli orientale (III-IV secolo d.C.) con monumenti e recinti funerari, posta ai lati della via Appia e nelle vicinanze della odierna via Nazionale Passo.
Fonte: I Sanniti.
http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Sanniti/Sanniti-indice.html

venerdì 9 maggio 2008

Medaglioni eclanesi. Giuliano d' Eclano

Aeclanum, sede episcopale di Giuliano d'Eclano
le terme
Antologia Eclanese.

Si pubblica alcuni scritti su Giuliano Vescovo di Eclano.
Il Contributo è stato pubblicato sulla rivista NICOLAUS e sul sito La Porta d'Oriente.net rivista internazionale- N. 1- Maggio 2006. Nuova serie on-line.

"L’esegesi di Giuliano d’Eclano.
Analisi di alcune “lezioni ebraizzanti” nell’Expositio libri Iob
[1]
di Michele Loconsole
1-Cenni biografici
[2]
Giuliano nacque tra il 380 e il 383 ad Aeclanum [3] , piccolo comune irpino dell’antica Apulia et Calabria [4] , da Memore vescovo di Capua e da Giuliana, nobile donna romana. Sposerà verso il 403 Titia, figlia di Emilio vescovo di Benevento [5] .
Nel 408, divenuto lettore e diacono (lector e clericus) nella comunità della Ecclesia aeclanensis, conobbe, probabilmente durante un viaggio in Africa, il vescovo di Ippona Agostino, amico di suo padre
[6] . Anche se Giuliano aveva studiato a Roma, colse l’occasione di approfondire gli studi sull’origine dell’anima e del male grazie ai colloqui avuti a Cartagine con il manicheo Onorato [7] .
Nel 416, a trentacinque anni circa, venne consacrato vescovo di Eclano da papa Innocenzo I
[8] , ma la sua notorietà come scrittore, esegeta, teologo e polemista è dovuta alla tenace opposizione a papa Zosimo (417-418) che aveva scritto l’enciclica Tractoria, con cui si condannava il pelagianesimo. L’Eclanense era un fervente sostenitore di questa dottrina eretica, nata e sviluppatasi tra IV e V secolo d.C. che faceva capo al monaco Pelagio [9] , combattuta senza sosta da sant’Agostino fino alla fine dei suoi giorni.
Giuliano, dalla spiritualità fervente e profonda, possedeva una vasta cultura e una conoscenza completa delle Sacre Scritture, tanto da essere considerato un grande dottore della Chiesa finché non cadde nell’eresia pelagiana
[10] .
Nel 418 papa Zosimo convocò il concilio di Cartagine (a cui parteciparono quasi duecento vescovi), dove furono definiti nove canoni “anti-pelagiani”, tutti entrati a far parte degli articoli di fede della Chiesa: sul peccato originale, sul battesimo degli infanti, sull’importanza della Grazia divina, sul ruolo dei santi etc
[11] .
Onorio (395-423), imperatore romano d’Occidente, emanò nello stesso anno, probabilmente in conseguenza alle decisioni del concilio nordafricano, l’ordine di espulsione di tutti gli eretici dal territorio italico: Giuliano e altri diciotto vescovi italiani – tra cui Celestio - non sottoscrissero l’Epistula tractoria, e furono quindi costretti ad esulare.
Giuliano messosi a capo dell’opposizione pelagiana, aiutato da Turbanzio e da Teodoro di Mopsuestia
[12] , scrisse due lettere al pontefice Zosimo [13] , che gli procurarono la definitiva condanna per pelagianesimo [14] . Una prima lettera fu prontamente confutata da Mario Mercatore, un discepolo di Agostino [15] , mentre il papa invitava il vescovo di Ippona a fare altrettanto. Fu l’occasione per scrivere il primo libro del De nuptiis et concupiscentia [16] , a cui il vescovo di Eclano ribatté nell’estate 419 con i quattro libri Ad Turbantium [17] , non prima di essersi rivolto senza successo al Comes di Ravenna Valerio con una petizione [18] . La controrisposta di Agostino non si fece attendere, questa volta attraverso un’imponente opera, un trattato in sei libri dal titolo chiaramente polemico, Contra Iulianum haeresis Pelagianae defensorem.
Purtroppo le due lettere che l’Eclanense aveva scritto, Ad Rufum Thessalonicensem
[19] e Ad Romanos [20] , sono andate perdute; ma grazie alla risposta di Agostino, Contra duas epistolas pelagianorum, è stato possibile ricostruirle quasi integralmente [21] .
Tra il 420 e il 428 il vescovo Giuliano, ormai condannato come eretico, troverà rifugio in Cilicia da Teodoro di Mopsuestia
[22] , e nel 422, da esule, scriverà l’opera Ad Florum [23] , probabilmente la più nota, composta da otto libri [24] . Anche in quella occasione Giuliano ripeté le accuse di manicheismo nei confronti di Agostino, già note nell’Ad Turbantium, addossandogli inoltre la colpa di volere risolvere con l’uso della forza e della sola ragione la questione pelagiana; oltre ad innumerevoli sfoghi di natura personale [25] .
Nel 428, morto il suo amico Teodoro, Giuliano fu costretto a trasferirsi a Costantinopoli da Nestorio
[26] , dove incontrerà il pelagiano Celestio. Nella capitale dell’impero entrò subito in aperta polemica con Mario Mercatore [27] , il quale, attraverso i suoi scritti anti-pelagiani aveva influenzato l’imperatore Teodosio II (408-450), al punto che questi nel 430 espulse gli eretici anche dall’Oriente.
Nel 439 papa Sisto III (432-440) impedirà a Giuliano, ormai riconosciuto universalmente eretico, di rientrare nella comunione con la Chiesa di Roma: gli sarà vietato per intervento del diacono Leone, il futuro pontefice Magno, anche di rientrare nella sua città natale, ad Eclano
[28] . Morirà probabilmente in Sicilia [29] , povero e solo, tra il 454 e il 455, sotto il regno di Valentiniano III (425-455) [30] . Si deve a H. I. Marrou la raccolta di non poche testimonianze volte a documentare il culto di Giuliano di Eclano, e addirittura di notizie riguardanti la sua canonizzazione [31] .
Oltre alla polemica teologico-dottrinale, Giuliano si era dedicato con altrettanta maestria anche all’esegesi, soprattutto di alcuni libri del Vecchio Testamento. Il metodo ermeneutico da lui utilizzato prese le distanze dalla esegesi tipologica “ortodossa” del tempo, approfondendo e prediligendo quella storico-letterale, più vicina ai pelagiani, alla scuola d’Aquileia e a quella ancora più autorevole d’Antiochia, dove il contributo della ratio nell’interpretazione delle Sacre Scritture occupava un posto prioritario e privilegiato
[32] .
2-Il metodo esegetico di Giuliano di Eclano
Gli scritti esegetici di Giuliano di Eclano si possono analizzare dal punto di vista dello stile, della lingua e dei modelli letterari
[33] , anche se il vescovo del beneventano, versatile di carattere ed eclettico per formazione, era in grado di esplorare di volta in volta nuove vie interpretative, a seconda delle necessità formali o dei generi letterari (elocutio) [34] .
Per scrittori ecclesiastici così antichi non è inusuale imbattersi in questioni tese a chiarire la reale paternità delle opere ad essi ascritte: mentre è sicura per Giuliano di Eclano l’Ad Florum, solo recentemente sono state a lui attribuite il Commento ai profeti minori (da altri attribuito a Rufino d’Aquileia
[35] ), il Commento ai Salmi (pubblicato dall’Ascoli [36] , e ritenuto di san Colombano, il monaco irlandese che visse dal 540 al 621) [37] e il Libro di Giobbe (attribuito a un tale Filippo, discepolo di Girolamo). Cospicuo è infatti il numero degli studiosi di Giuliano che da un secolo circa hanno documentato tali attribuzioni [38] .
Tornando al metodo esegetico, va subito sottolineato che Giuliano non apporta nulla di decisivo al pelagianesimo di Celestio o dello stesso Pelagio; è però strenuo accusatore di Agostino che, per la sua visione del peccato originale, è da lui apostrofato come il “rianimatore” del manicheismo. Per Giuliano, infatti, il matrimonio, uno dei temi molto caro all’Eclanense e oggetto di attacchi polemici e a tratti virulenti, è visto più come un bene per l’uomo che un “mezzo di trasmissione” di peccato. Egli, inoltre, difese la concupiscenza, intesa più come un bene naturale (errata solo negli eccessi) che non come disfunzione ereditata dall’uomo, e conseguenza del peccato originale.
Il metodo teologico adoperato da Giuliano si basava, secondo Vaccari, De Plinval e Cipriani, sulla triade Ratio, Scrittura, Tradizione
[39] : per il vescovo di Eclano è la ragione che giudica tutto (argomenti intrinseci); mentre la Rivelazione e l’autorità dei santi valgono solo come argomenti estrinseci [40] . La sua esegesi (egli era studioso del senso letterale, della ragione storica della connessione logica e reale, evitando l’allegoria e il misticismo dei nomi e dei numeri) ha un’indole rara da reperire negli scritti dell’antichità latina, caratteristica che avrebbe facilitato l’individuazione della paternità di alcune sue opere esegetiche in passato attribuite ad altri, come abbiamo appena detto.
L’itinerario esegetico-interpretativo percorso da Giuliano è chiaro soprattutto nell’Ad Florum. Nella sezione dedicata al peccato originale, per esempio, Giuliano tratta l’argomento in tre fasi: in un primo momento da un punto di vista puramente filosofico (da lui individuati come gli elementi intrinseci), mettendo a confronto i termini di giustizia e di peccato dopo averli definiti e analizzati razionalmente. Solo successivamente passa al confronto con la Sacra Scrittura (i cosiddetti elementi estrinseci)
[41] , interpretando così a suo favore i passi biblici che non giustificherebbero l’esistenza del peccato originale. Nel terzo momento, infine, conclude l’esegesi prendendo a prestito gli scritti dei santi uomini, citando nell’intera controversia due volte Basilio e una sola volta Crisostomo [42] .
Si potrebbe affermare con la sua stessa espressione Quod ratio arguit, non potest auctoritas vindicare
[43] ; il primato della ratio nel suo metodo esegetico potrebbe scaturire dall’analisi e dallo studio della letteratura paolina, molto cara al pelagiano campano: “Confessiamo la santità degli scritti paolini per nessun’altra ragione se non perché ci ammaestrano in armonia con la ragione, con la pietà e con la fede” [44] .
Da queste premesse metodologiche, che infiammarono l’intera “polemica giulianea”, impostata sull’intellettualismo e sull’agonismo, che gli avversari dell’Eclanense hanno sempre respinto con decisione, prende forma il modello ermeneutico di Giuliano, fondato su conflictus, certamen, concertatio e causa
[45] . Infatti, fu lo stesso Agostino a definire Giuliano di Eclano, nonostante gli fosse acerrimo avversario, architetto del dogma pelagiano, avendo personalmente accertato le notevoli doti dialettiche, retoriche, esegetiche e linguistiche di cui egli disponeva [46] .
3-Chi è l’autore dell’Expositio libri Iob?
Abbiamo appena accennato al fatto che anche il Commento a Giobbe, opera ritenuta per secoli di un sacerdote di nome Filippo, un probabile discepolo di san Girolamo, è stato recentemente attribuito da alcuni moderni esegeti a Giuliano d’Eclano. È nostro intento, in questo contributo, riferire innanzitutto sullo status quaestionis degli studi più recenti pubblicati su quest’opera ecclesiastica, ma soprattutto di contribuire a dipanare il dubbio se questo lavoro sia proprio del nostro Giuliano, attraverso lo studio di alcuni termini in lingua ebraica, riportati in originale o traslitterati in latino, presenti sia in quest’opera che in altri scritti dell’Eclanense.
L’Expositio Philippi presbyteri discipuli beati Hieronymi, pubblicata nel 1897 all’interno del III volume dello Spicilegium Casinense
[47] è un commento esegetico al libro di Giobbe, riportato nel più antico Codice Cassinese [48] , d’ora in poi citato [Exp] [49] . Un commento sullo stesso libro biblico, il cui autore è anche in questo caso un sacerdote di nome Filippo, era già noto agli studiosi fin dal 1527 grazie al lavoro dell’umanista Johannes Sichardus, opera che di seguito indicheremo con [Fil] [50] . La formale somiglianza tra le due fonti, l’Expositio [Exp] e il Commentarius [Fil], ha per lungo tempo confuso gli studiosi, al punto che quando l’Exp fu pubblicata sul finire del XIX secolo si registrò un totale disinteressamento all’opera cassinese, perché ritenuta una copia della più antica versione del XVI secolo [51] .
Le due fonti, però - come avremo modo di vedere - non hanno nulla in comune tra loro, se non il nome dell’autore e il commento al medesimo libro biblico di Giobbe, preso dalla versione della Vulgata di san Girolamo, la Bibbia tradotta in latino nel 393 direttamente dall’ebraico; diversi, infatti, si presentano nei due testi, le idee, lo stile, l’esegesi e il carattere
[52] .
E allora, delle due opere qual è il più antico Commento a Giobbe? Chi sono i due Filippo? Ma soprattutto, quale dei due scritti può essere accreditato a Giuliano d’Eclano? Tenteremo di rispondere a queste complesse e affascinanti domande, partendo per il momento dalle attestazioni di antichi autori o manoscritti, di cui alcuni riportati anche nello stesso Commentario.
Fausto di Riez fin dal VI secolo cita due frammenti del Commentario di Sichardus, ma a nome di Girolamo
[53] ; e Beda, all’inizio dell’VIII secolo, nel De ratione temporum, lo cita in c. 4 [54] . Nel manoscritto della Biblioteca ambrosiana (F 60 sup.), dell’VIII secolo, si possono leggere otto estratti del Commentario, ai cui margini è scritto Philippus [55] ; e Remigio d’Auxerre, scrittore del IX secolo, è il probabile autore di citazioni a senso di due spiegazioni a Giobbe, 40, 10.14 [56] . Mentre la Bibbia manoscritta della Biblioteca Mazarina di Parigi (N. 1) nel prologo al libro di Giobbe riporta l’inizio del Commentario di Sichardus [57] . Per quanto riguarda i manoscritti, invece, molti lo danno come anonimo o pseudonimo; alcuni altri invece sono intitolati a Filippo [58] .
Le citazioni e i manoscritti qui riportati, però, non convincono circa la reale paternità di Exp, che al dire di alcuni studiosi moderni – come abbiamo già accennato - è invece da ascriversi al vescovo beneventano del V secolo.
Germain Morin, benedettino e padre della patrologia latina, ha sostenuto, per esempio, che il Commentarius in prophetas minores tres Osee, Joel et Amos, accreditato per secoli a Rufino d’Aquileia
[59] , sarebbe in realtà di Giuliano di Eclano. Lo studio dell’opera esegetica a commento dei profeti minori del Vecchio Testamento ha indotto lo studioso francese a dedurre che anche l’autore del Commentario Cassinese sia proprio il pelagiano Giuliano [60] .
A confermare la recente paternità di Giuliano nei confronti di opere esegetiche ascritte per secoli ad altri autori, ci si è serviti, oltre agli studi di non pochi studiosi, anche di alcuni scritti dell’Eclanense, ricavati indirettamente, in non pochi casi anche in ampi frammenti, da alcune opere di sant’Agostino. Non è nostro compito, però, indagare in tale direzione, già ampiamente percorsa da molti e dotti contributi, quanto il verificare, attraverso lo studio di alcuni termini in lingua ebraica presenti in Exp, se l’autore sia proprio Giuliano di Eclano, approccio non secondario per rafforzare tale convincimento.
4-L’ebraico nelle opere di Giuliano
Si deve allo studio del Brückner
[61] l’aver messo in rilievo la competente conoscenza di Giuliano delle lingue orientali, nonché della storia, della letteratura ecclesiastica, della mitologia e della filosofia; qualità, però, non sempre evidenti nel nostro Commento a Giobbe, se si tiene conto del genere scoliastico tenuto in Exp, probabilmente la riduzione di un testo più ampio [62] .
Ciò che qui ci preme principalmente evidenziare è di conoscere in che modo e per quali fini il vescovo beneventano avrebbe utilizzato la lingua ebraica per il commento alle sue opere esegetiche, e del libro di Giobbe in particolare, e come possa averlo agevolato per l’elaborazione ermeneutica dei testi biblici.
È noto che Giuliano, nel corso della sua attività esegetica, ha interpretato la Sacra Scrittura in vario modo, al punto da costituirne una particolare “abitudine linguistica e stilistica”, oltre ad elaborare un personale modello ermeneutico. Un peculiare uso della Scrittura, di cui soprattutto Exp è un testimone privilegiato, induce molti studiosi a riconoscere in questo metodo lo stile dell’Eclanense.
Una caratteristica giulianea, soprattutto nell’interpretazione della Sacra Scrittura in Exp, del tutto determinante allo scopo del nostro intento, è proprio la cosiddetta commutatio temporum
[63] , tipico schema linguistico usato nella lingua ebraica, in cui un’azione espressa nella versione originale col tempo futuro può intendersi anche al passato, e viceversa. In Exp 352 a, 5-13, commentando Giobbe 8,5, per esempio, l’autore dopo aver applicato questo criterio ermeneutico passa a spiegare il vero senso della Scrittura [64] .
L’autore dell’Exp - entrando così nel merito della questione - si sofferma su alcuni riferimenti specifici alla lingua ebraica. Per esempio, in (415a, 8-11)
[65] dice che in essa “Omnia terrena animantia Behemoth [66] vocantur; similiter omnia quae in aquis vivunt Leviathan”; e in (341b, 23), parlando ancora del mostro marino di biblica memoria, afferma che “Leviathan (dice) Hebraeorum vel Syrorum traditio vult intelligi illum esse, de quo David dicit: draco iste quem formasti ad illudendum ei”. Nel Salmo 104 (103), in cui si cantano gli splendori della Creazione, al versetto 26 (e non al 27, come riporta il Vaccari) [67] l’originale ebraico porta [68] תרצי־הז ןתיול (Liviatàn ze-yazartà=il Leviatàn che hai plasmato), anche se dal testo di Exp si arguisce che l’autore non ha attinto il termine ebraico direttamente dalla fonte biblica: Hebraeorum vel Syrorum traditio. Del resto neanche lo storico della Chiesa antica Eusebio di Cesarea, originario della Palestina - così come molti altri scrittori dell’antichità provenienti da quell’area - ha impiegato quantitativamente e qualitativamente la lingua ebraica nelle sue opere. Ciò nonostante, va sottolineato che l’autore dell’Exp fa continuo riferimento alla Vulgata di Girolamo per commentare il libro di Giobbe, versione latina desunta, come abbiamo detto, direttamente dall’ebraico originale. Quindi, il fatto che in Exp si trovino, in via del tutto inusuale, i nomi propri di questi animali, traslitterati in latino direttamente dall’ebraico, ci induce a ritenere che l’autore del Commentario sia proprio Giuliano d’Eclano, così come l’Eclanense ha fatto in altri suoi scritti.
L’Exp, inoltre, commentando Giobbe 3,8 menziona nuovamente il termine ebraico Leviatàn, lemma che nella versione dei LXX (e quindi anche nell’antica latina) è tradotto con draco. Infatti, nel primo capitolo del Commento ai Salmi Giuliano farebbe la stessa osservazione, e che cioè nel testo originale si parla di Leviatàn, particolare che l’Eclanense ripete anche nel Commento a Giobbe in 40,20, dove il mostro marino è però diversamente descritto come belua, quae in mari indico esse perhibetur
[69] . A eccezione di Giuliano, è raro trovare interpreti che riportano nei commenti esegetici dell’Antico Testamento direttamente il termine ebraico traslitterato in latino, come nei casi che abbiamo appena visto riferendo del Leviatàn e di Behemòth.
Per Giuliano, quindi, le differenze tra la “più recente”
[70] traduzione biblica di Girolamo, la Vulgata, e la più antica versione latina del II secolo (150 circa) tradotta dalla LXX, sono notevoli. Ci sembra più probabile, pertanto, che Giuliano abbia utilizzato per i suoi lavori esegetici la versione di Girolamo, sia perché la riteneva “più sicura”, sia perché già pubblicata da almeno un trentennio.
Anche se l’Eclanense “criticava” la versione di san Girolamo, nella sua prefazione al Commento ai profeti minori
[71] e nell’introduzione a Gioele avverte il lettore di aver preso a prestito proprio questa versione “secondo l’ebraico” [72] . Nel Commento al Salmo 33,22, per esempio, l’autore riporta Secundum hunc sensum in hebraeo quoque “odientes iustum superabuntur”; in quello al 43,13 afferma: Hebraeus habet “nec grandis fuit commutatio nostra”; e in 57,6 prosegue: Sic hebraeus “nec audit incantatoris incantationes callidas”; e così via per almeno una trentina di casi [73] .
La comprensione del testo, senza interruzioni o frasi oscure, era garantita, secondo Giuliano, solo dalla Vulgata, al punto che parla di locutionum integritas, a scapito delle versioni greche e dell’antica latina, che soprattutto per il libro di Giobbe avrebbero tradotto, al dire dell’Eclanense, con meno intelligenza e con più libertà
[74] .
Giuliano, dunque, utilizzò quasi esclusivamente la Vulgata per il suo Commento a Giobbe
[75] , meno, come vedremo, per il Commento ai profeti minori, anche se il suo maggiore oppositore, sant’Agostino, gli replicava citando sempre l’antica versione latina, che l’Eclanense aveva preferito per le altre sue opere, soprattutto quelle di natura più squisitamente dottrinale e polemica, forse perché era considerata la versione ufficiale della Chiesa romana [76] .
Un importante esempio in cui Giuliano non ricorre per la sua esegesi alla Vulgata è rinvenibile nel Commento ai profeti minori, al capitolo XII del libro di Osea, in cui si espone la perversione politica e religiosa di Israele. Al primo versetto il vescovo commenta: Efraim mi ha voluto frodare nel traffico, e Israele con dolo
[77] . Egli, infatti, leggeva, probabilmente da una traduzione corrotta, in negotiatione, mentre la Vulgata riporta più propriamente all’ebraico in negatione: Girolamo infatti aveva tradotto la sua versione direttamente dal testo לארשי תיב המרמבו םירפא שחכב ינבבס (Sebabuni bekahash Efraim ubmirmàh beit Israel=Efraim mi raggira con menzogne e la casa d’Israele con frode).
Da queste differenti versioni tra le due fonti bibliche, la Vetus e la Vulgata, e del conseguente commento che Giuliano ricava, possiamo confermare quanto già anticipato precedentemente: l’Eclanense ha utilizzato la versione di Girolamo quasi esclusivamente per il Commento al libro di Giobbe, mentre per gli altri testi dell’Antico Testamento ha usato l’antica versione latina del II secolo. Egli infatti ha commentato Osea 12,1 partendo dalla traduzione latina di in negotiatione=nel traffico, al posto di in negatione, cioè nell’atto di negare, di smentire. Ancora più corretto sarebbe stato se Girolamo avesse tradotto il termine ebraico שחכב (bekahash) con ripudio
[78] : avremmo così ottenuto Efraim mi raggira col ripudio e la casa d’Israele con frode (nostra traduzione).
Nel Commento a Giobbe 6,19, inoltre, Giuliano dà prova di aver letto un commentatore greco
[79] che interpreta la Vulgata. Infatti, in Exp 348b, 19-29 annota: Nel testo ebraico si trovano nomi differenti da quelli che indurrebbe a credere la versione ebraica (di Girolamo). Il testo originale, infatti, porta אמת (Temà) e אבש (Shbà), e non ימית (Temai) e אבס (Sbà) [80] , per indicare i nomi dei popoli vaganti nel deserto con le carovane, per i quali la mancanza d’acqua era la più grande delusione e la più amara punizione riservata loro da Dio.
Un altro caso del tutto simile al precedente si riscontra ancora nel Commento a Giobbe 26,5.6
[81] , dove il termine gigantes è tradotto dall’ebraico םיאפר (refaìm=giganti) [82] . Qui, però, si voleva alludere ad uno specifico popolo che proveniva da oltre il fiume Giordano (cfr Gen 6,4), esseri umani di grande statura, perciò “giganti”. Nel primo libro della Bibbia, però, sono chiamati םילפנה (ha-nefilìm) [83] , cioè i famosi titani orientali, nati dall’unione tra donne mortali ed esseri celesti. I commentatori giudaici e i primi scrittori ecclesiastici hanno visto in questi superuomini, veri eroi dell’antichità, il frutto colpevole dell’unione tra gli angeli e le figlie degli uomini, per questo chiamati anche “figli di Dio”. Però, a partire dal IV secolo i Padri della Chiesa hanno interpretato tali figure mettendo di più l’accento sull’aspetto spirituale, individuando i “figli di Dio” come i discendenti di Set e le “figlie degli uomini” quali discendenti di Caino [84] .
Da questi pochi esempi possiamo dedurre che Giuliano utilizzava per i commenti esegetici tutte le fonti in suo possesso, nessuna esclusa; privilegiava soprattutto la Vulgata geronimiana che aveva attinto alle fonti ebraiche disponibili, utile per determinare il nome appropriato di animali, di persone, di popoli e di figure mitologiche citate nei racconti biblici; fatto che denota lo scrupolo e la precisione linguistica con cui l’Eclanense si dedicava all’attività esegetica
[85] .
5-Alcune lezioni “ebraizzanti” nell’Expositio libri Iob
Il contributo specifico che Giuliano d’Eclano apporta all’esegesi grazie all’uso della lingua ebraica, è rinvenibile nell’analisi di alcune lezioni inserite nelle sue opere, dette pertanto “ebraizzanti”.
Nel commento al XVIII capitolo del libro di Giobbe, al versetto 13: “Un malanno divorerà la sua pelle, roderà le sue membra il primogenito della morte (si riferiva forse alla peste?)”, la sezione del testo dedicata ad esporre che la collera non può nulla contro la giustizia, Giuliano aggiunge: “In graeco: comedet adhuc vivente illo primogenitum eius mors”; una lezione, questa, che però non trova riscontri nei codici greci o nelle versioni derivate
[86] . Come risolvere il problema? Dall’analisi del testo ebraico si ricava invece una spiegazione di adhuc vivente illo, inusualmente presente nella lezione giulianea: si potrebbe rendere abbastanza fedelmente con ויּחב (behaiàv=mentre era in vita) [87] , oppure con וֹדעב (be’odò=mentre lui) o וּנּדעב (be’odènu=mentre egli), due termini, quest’ultimi, simili al masoretico וידב (bdyv=membra). Però, si può anche immaginare che possa esservi stata una confusione o una corruzione dei copisti. Più semplice si presenta, invece, il problema della locuzione primogenitum eius, che sicuramente è ricavato dal masoretico רוכב [88] (bkwr) per leggerlo וֹרכב (bekorò=il di lui primogenito) [89] .
Come abbiamo già accennato, Giuliano, altrove come in questo passaggio dell’Exp, non utilizza le versioni greche di Aquila, di Simmaco o di Teodozione, ma quasi sicuramente ricava il commento da una fonte ebraica, ipotesi che si rafforza ulteriormente se consideriamo che non esistono manoscritti a noi noti che riportano questi termini
[90] .
Anche in un altro passaggio del Commento, nella pericope 41,24
[91] , l’Eclanense ricorre all’antica lingua semitica per commentare il libro di Giobbe: Aliter graece: Non est super terram potestas eius, qui factus est ut ab angelis inluderetur ei”. I testi greci a noi giunti, non parlano di potestas eius [92] : la frase non è stata presa neanche dalla Vulgata [93] , perciò è probabile che questa lezione giulianea risponda ad una versione del tutto indipendente, quasi sicuramente appartenente ai commentari di Policronio di Apamea [94] , di cui notoriamente Giuliano era imitatore in Occidente. Infatti la parola ebraica utilizzata, וֹלשׁמ (mashlò=regno/potere di lui), la ritroviamo in Dan 11,4 e in Zc 9,10, e può significare il suo regno e il suo dominio, o, come dice Vaccari, anche simile a lui (in arabo ُﻪُﺍﺚﻤ =mathùhu) [95] .
6-Conclusione
Possiamo ritenere, alla luce di queste considerazioni, Giuliano di Eclano il probabile autore dell’Expositio libri Iob, nonché degli altri due Commenti, visti i comportamenti linguistici ed esegetici tipici del suo stile, che qui abbiamo a tratti individuato e imparato anche a riconoscere. Il contributo delle lezioni “ebraizzanti”, poi, hanno ulteriormente contribuito a certificare la paternità dell’opera di Giuliano, da lui particolarmente preferite perché ritenute più rigorose e sicure, come aveva fatto il suo ispiratore orientale Policronio
[96] , che in più di un manoscritto introduceva un versetto biblico o un commento esegetico con le parole in greco ò ̀Εβραι̃ος, oppure τὸ ε̉βραϊκόν [97] .
In conclusione possiamo asserire che le opere ritenute con certezza di Giuliano e quelle solo recentemente a lui attribuite, quali i tre Commenti, che in parte qui abbiamo analizzato nelle sezioni dove l’uso della lingua ebraica permetteva di individuare un ulteriore elemento giulianeo
[98] , hanno in comune le stesse idee e abitudini mentali, la stessa cultura intellettuale e il medesimo spirito critico. Così da ritenere con fondata probabilità di trovarci di fronte ad opere dello stesso autore, e condividere, infine, insieme al prof. Marcello Marin [99] , che sia ormai maturo il tempo della rivalutazione di Giuliano d’Eclano, non solo per deideologizzare il contrasto tra lui e sant’Agostino, ma anche per riconoscergli la paternità di alcune opere per troppo tempo attribuite ad altri.
[1] Ringrazio il prof. Marcello Marin, docente di Letteratura cristiana antica all’Università degli Studi di Foggia, che mi ha proposto il tema di questa ricerca.
[2] Per ulteriori approfondimenti sulla vita e le opere di Giuliano d’Eclano, nonché dell’Irpinia cristiana tra IV e VI secolo, si veda la recente pubblicazione degli Atti del Convegno Internazionale, tenutosi a Città di Mirabella Eclano dal 4 al 6 giugno 2003, in Antonio V. Nazzaro (a cura di), Giuliano d’Eclano e l’Hirpinia Christiana, Napoli 2004.
[3] L’odierna Città di Mirabella Eclano, cittadina dell’Avellinese, è situata nella valle della Mefite (Ansanto), poco ad est di Benevento.
[4] Il territorio degli Hirpini comprendeva anche Beneventum e Aeclanum, parte settentrionale della Regio secunda Augustea. Cfr Agostino, Opus imperfectum, VI, 18, in PL 45, 1049-1608.
[5] Paolino da Nola, amico del padre Memore, gli inviò per il suo matrimonio un epitalamio. L’affetto e la stima che il vescovo di Nola nutriva nei confronti del giovane Giuliano sono testimoniati nella definizione di puer Christi e sanctus maritus: in Carmen 25, 141.144, edizione A. Ruggiero, Paolino di Nola, I Carmi, 2, Napoli-Roma, 1996, p 192; e Carmen XXV, in CSEL 30, 2, p 238-344. Per i rapporti tra Paolino da Nola e i pelagiani, cfr Teresa Carpino Piscitelli, Paolino da Nola. Epistole ad Agostino, Napoli-Roma 1989.
[6] Cfr Ep., 101,4, in NBA 21, 944.
[7] Cfr Agostino, Opus imperfectum, V, 26.
[8] Cfr Mario Mercatore, Commonitorium, II, in ACO I, V, 1, p 20; 68. Per Innocenzo I, Zosimo e Sisto III, cfr Enciclopedia dei Papi, vol. I, Roma 2000.
[9] Dottrina teologica, poi condannata come eretica, elaborata dal monaco irlandese Pelagio che, giunto a Roma verso il 390, criticò il lassismo morale dei cristiani esortandoli a una vita ascetica e raccogliendo intorno a sé numerosi discepoli. Pelagio sottolineava il valore della libera volontà dell’uomo come mezzo per giungere alla salvezza, sostenendo che il male non è una condizione insita nel genere umano, ma soltanto la conseguenza dello scarso impegno del singolo: da qui il rifiuto della dottrina del peccato originale e del battesimo degli infanti, che non sarebbe apportatore della grazia salvifica di Dio, identificata invece con la tendenza propria degli uomini ad agire secondo la ragione e la retta coscienza nello sforzo supremo della volontà volto a raggiungere la perfezione morale. L’accento posto da Pelagio sulla tensione morale del cristiano come manifestazione essenziale della sua religiosità ricorda da vicino la visione etica propria dei seguaci dello stoicismo. Stabilitosi in Palestina verso il 412, Pelagio godette della protezione del vescovo Giovanni di Gerusalemme, e la sua dottrina divenne popolare in Oriente, soprattutto fra i seguaci di Origene.
[10] Giuliano, al dire di altri autori, era anche vanitoso: si impose sulla scena culturale del tempo per la sua pedante dialettica e per la brillante parola. Prospero, nel suo libro delle Cronache (439), lo definisce “Il più fanfarone di tutti i difensori dell’eresia pelagiana”: cfr A. Gaudel, in Dict. Th. Cath., col 702, vol. XII, Paris 1933.
[11] A cui si andarono ad aggiungere le condanne dei concili di Efeso (431) e d’Orange (529).
[12] Cfr Teodoro di Mopsuestia, (a cura di) Angelo Di Berardino, Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, II, Casale Monferrato 1983, pp 405 ss.
[13] Ad Rufum Thessalonicensem e Ad Romanos, a cui Agostino rispose con l’opera Contra duas epistolas pelagianorum: cfr Agostino, Opus imperfectum, I, 18.
[14] Agostino, Contra Iulianum haeresis Pelagianae defensorem, 3, 1, 4, in PL 44, 461-874.
[15] Cfr ACO I, V, 1, pp 11-12; e A. Brückner, Die Vier Büecher Julians von Aeclanum an Turbantius. Ein Beitrag zur Charakteristik Julians und Augustins, in Neue Studien zur Geschichte der Theologie und Kirche, t. VIII, Berlino 1910, pp 24-76. Qui citato, Turbantius, pp 108-109. Giuliano, nella risposta alla Tractoria, spiegava, a mo’ di esempio, il rapporto Adamo-discendenti e Cristo-cristiani, da cui far conseguire che i bambini non nascono sotto il dominio del peccato; e che la morte corporale è da ritenersi come un fatto naturale, mentre la morte dell’anima (tradux peccati) è vera solo per coloro che seguono il cattivo esempio di Adamo. Cfr Giuliano di Eclano, (a cura di) A. Di Berardino, Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, III, p 461.
[16] Cfr Agostino, Ep. 194, 1, in PL 33, 874-875.
[17] Agostino, Opus imperfectum, I, 10 e Ep., 200, in PL 33, 925-927; Turbantius, pp 24-76. Per Giuliano ci si trovava, ormai, di fronte ad una forma di “manicheismo camuffato” (veniva, così, messa in discussione la bontà della Creazione e la giustizia di Dio), a cui seguiva una specie di “persecuzione” nei confronti dei seguaci di Pelagio e Celestio (cfr anche l’editto di condanna dei pelagiani del 419).
[18] Giuliano espose a Valerio i rischi in cui si incorreva se si accettasse il matrimonio cristiano inteso “agostinianamente” (tradux peccati): cfr Agostino, De nuptiis et concupiscentia, 1,1,1.
[19] Qui si ripete l’accusa di manicheismo alla concezione agostiniana della natura dell’uomo, ereditata da Adamo peccatore e dalla negazione della santità nell’Antico Testamento.
[20] Cfr PL 48, 505-507 (attribuita a Celestio). Nell’opera si respinge l’idea dell’indebolimento della natura dell’uomo e della sua libertà a causa del peccato di Adamo, la cui diretta conseguenza è l’impotenza a fare il bene, che sebbene in potere della libertà non si nega che possa avvenire anche attraverso la grazia di Dio.
[21] Cfr Turbantius, pp 109-113.
[22] Cfr Nello Cipriani, Sulle fonti orientali della teologia di Giuliano d’Eclano, in Antonio Nazzaro (a cura di), Giuliano d’Eclano, cit, pp 157-170.
[23] Cfr A. Brückner, Julian von Aeclanum. Sein Leben und seine Lehre, in Texte und Untersuchungen, XV, 3, Leipzig 1897, pp 49-51.
[24] Di cui conosciamo sei libri grazie alla replica di Agostino: Contra secundam Iuliani responsionem, nota anche come Contra Iulianum opus imperfectum. Per i primi tre libri, vedasi la recente edizione critica a cura di Kalinka Michaela Zelzer, in CSEL 85/1, Vienna 1975.
[25] Cfr N. Cipriani, A proposito dell’accusa di manicheismo fatta a S. Agostino da Giuliano d’Eclano, , 14, 1988, pp 333-344.
[26] Cfr Nestorio, (a cura di) A. Di Berardino, Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane II, pp 405 ss.
[27] Cfr Giorgio Otranto, Da Giuliano di Eclano ad Eugippio: la Campania tra eresia e ortodossia, in , (40) n 2, 2003, pp 207-224; dello stesso autore, anche in Antonio Nazzaro (a cura di), Giuliano d’Eclano e l’Hirpinia Christiana, Napoli 2004, pp 35-53.
[28] Prospero di Aquitania, Chronicon, 2, 747, in PL 51, 998; Quodvultdeus, Liber promissionum, 4, 6, in SCh 102,610.
[29] Quodvultdeus, Dimidium temporis, VI, 12, in CCh 60, 198.
[30] Cfr PL 45, 1039-42; H. Vignierius, Supplementum ad Augustini opera, Parisiis 1657, in J. Lössl, Julian von Aeclanum. Studien zu seinem Leben, seinem Werk, seiner Lehre und ihre Überlieferung, Leiden-Boston-Köln 2002, p 327.
[31] Cfr H. I. Marrou, La canonisation de Julien d’Eclane, in Historisches Jahrbuch der Görres-Gesellschaft, 77 (1958), pp 434-437.
[32] Cfr Vittorino Grossi, Il Ricorso ad Ambrogio nell’Opus Imperfectum Contra Iulianum di Agostino d’Ippona, in Antonio Nazzaro (a cura di), Giuliano d’Eclano, cit, pp 148-156, soprattutto la nota 67.
[33] Cfr Maria Cristina Pennacchio, Cum Sermo Propheticus absolute utrumque promiserit: L’interpretazione giulianea del concetto di Teoria, in (a cura di) Antonio Nazzaro, Giuliano d’Eclano, cit, pp 182-189.
[34] Cfr Nello Cipriani, Aspetti letterali dell’Ad Florum di Giuliano d’Eclano, in 15 (1975), pp 125-167.
[35] Cfr PL 21, 959-1104.
[36] Cfr G. Ascoli, in , 5 (1878).
[37] Cfr Alberto Vaccari, Nuova opera di Giuliano eclanense: Commento ai Salmi, in 67/1, 1916, pp 587-593.
[38] Cfr gli studi di Baxter, Morin, Vaccari, De Plinval e Cipriani, riportati in bibliografia.
[39] L’ordine in cui Giuliano predispose i tre elementi non è casuale: certamente gli si può, però, osservare che il primato della ratio è nell’ordine del presupposto della conoscenza logica e non in quello del giudizio in sé; oltre al fatto che tra Sacra Scrittura e Tradizione non c’è discontinuità, ma il medesimo deposito di fede trasmesso.
[40] Cfr Agostino, Contra Iulianum, I, 7.
[41] Cfr Cipriani, Aspetti letterari, pp 139-145.
[42] Cfr Agostino, Contra Iulianum, II, 5-6.
[43] Cfr Agostino, Opus imperfectum, II, 16.
[44] Id, 114; cfr anche Giuliano di Eclano, in A. Di Berardino (a cura di ), op cit, p 462; e Vittorino Grossi, Il Ricorso ad Ambrogio nell’Opus Imperfectum Contra Iulianum di Agostino d’Ippona, in Antonio Nazzaro (a cura di), Giuliano d’Eclano, cit, pp 148-156.
[45] Cfr Cipriani, Aspetti letterari, p 126.
[46] Cfr Agostino, Contra Iulianum, VI, 11, 36.
[47] Parte I, pp 333-417, Typis Archicoenobii Montis Casini: cfr infra nota 49.
[48] Cfr Alberto Vaccari, Un commento a Giobbe di Giuliano di Eclana, Roma 1915, p 1, nota 2, dove la fonte è così indicata: Philippi Presbiteri discipuli B. Hieronymi Expositio libri Iob nunc primum ex codex Casiensi. n. 371 in lucem profertur, Specilegium Casinense III, I. È un manoscritto dell’XI-XII secolo, in scrittura beneventana. La pubblicazione del Codice fu voluta dall’allora archivista e abate della abbazia di Montecassino, padre Amelli.
[49] A. Amelli, Expositio libri Iob, in Spicilegium Casinense, vol III, part. 1, 1887, pp 333-417, in PLS I, 1571-1679. Si citano le pagine e le colonne (a=prima; b=seconda) e le linee (tra parentesi i numeri reali delle linee quando i notati in margine dell’edizione non corrispondono alla realtà).
[50] Vaccari, Un commento, p 1, nota 3: l’opera è intitolata Philippi presbiteri viri longe eruditissimi, in historiam Iob Commentariorum libri tres. Basileae per Adamum Petrum, mense Augusto, anno MDXXVII. Si citano le pagine e le sezioni ABCD.
[51] Neanche la stampa specialistica dell’epoca diede risalto alla pubblicazione dell’Expositio, e se qualche studioso la prese in considerazione fu per identificarla con le tre recensioni esistenti del Commentarius. Cfr Vaccari, Un commento, p 2, nota 1.
[52] È probabile che l’opera di Giuliano sia stata “accreditata” a Filippo, discepolo di Girolamo, per salvarla dalla distruzione a cui le opere degli eretici erano destinate: in odium nominis haeretici.
[53] Cfr Ep. 3, in PL 58, 841; cfr Fil, 120 C.
[54] Cfr anche Fil, 173 A.
[55] Cfr Vaccari, Un commento, p 3, nota 1.
[56] Cfr Monum. Germ. Hist., Ep. 5, p 637 e 639; nonché Fil, 196 C e 197 A.
[57] Cfr Fil, 3 A.
[58] Cfr Vaccari, Un commento, p 4.
[59] Cfr Cfr PL 21, 959-1104.
[60] Cfr Germain Morin, Un ouvrage restitué à Julian d’Eclanum: le commentaire du pseudo-Rufin sur les prophètes Osée, Joel et Amos , , (30) 1913, pp 8-24.
[61] Cfr A. Brückner, Julian von Aeclanum. Sein Leben und seine Lehre, Leipzig 1897.
[62] Cfr Vaccari, Un commento, p 31.
[63] Soprattutto se inquadrata col principio ermeneutico particolarmente caro a Giuliano quale era la Consequentia: cfr Vaccari, Un commento, pp 89-101.
[64] Per ulteriori esempi, anche in altre opere, cfr Vaccari, Un commento, p 105-107.
[65] Id, p 31-32.
[66] In Gb 40,15 la Bibbia di Gerusalemme traduce il termine ebraico תומהב (behemòt) con “ippopotamo”, anche se nella lingua semitica indica più generalmente il plurale di “bestia”, “bestiame”, o più raramente di “mostro”. In Alcuni passi veterotestamentari, poi, è indicato come un elefante o un bufalo, simbolo della forza bruta che Dio è capace di dominare, ma che l’uomo non può addomesticare.
[67] Cfr Vaccari, Un commento, p 31.
[68] Per la Bibbia ebraica cfr l’edizione: םיבותכו םיאיבנ הרות (Toràh, Neviìm waKetuviìm), Norman Henry Snaith, Clays Ltd, St Ives plc, 1992.
[69] Cfr Alberto Vaccari, Il salterio ascoliano e Giuliano eclanense, in (4), pp 347-348
[70] Nel commento a Is 45, 8.9 Giuliano riporta secundum interpretationem recentem, cioè la Vulgata. Cfr Vaccari, Un commento, p 87.
[71] Per approfondimenti sull’opera, cfr L. Annecchino Manni, Il Prologo del Commentario di Giuliano sui Profeti Osea, Gioele e Amos, , n.s. 16, 1985-86, pp 15-21.
[72] Secundum interpretationem recentem; Istam postremam quae secundum hebraeum appellatur (p 961)… ultimam quae secundum hebraeum vocatur (p 1033).
[73] Cfr Vaccari, Il salterio ascoliano, p 353-354.
[74] Cfr Vaccari, Un commento, p 86.
[75] Molte sono, inoltre, le frequenti citazioni “del greco” in lingua latina, che non avrebbero senso se la spiegazione avesse come base l’antica versione latina.
[76] Non dobbiamo dimenticare che i testi biblici che venivano letti in chiesa, e tra questi soprattutto il libro dei Salmi erano tratti, almeno fino a tutto il V secolo, dalla Vetus latina, fatto che indusse Giuliano ed altri esegeti a preferire questa versione alla più recente Vulgata, per non generare confusione tra i lettori.
[77] Cfr Vaccari, Un commento, p 95.
[78] Cfr Benjamin Davidson, The Analytical Hebrew and Chaldee lexicon, p 376-377, London 1967.
[79] Scolii d’autore incerto, probabilmente di Policronio di Apamea, n 51, in Vaccari, Un commento, p 169.
[80] Gli stessi termini indicati anche nella Bibbia ebraica e tradotti da La Bibbia di Gerusalemme con Tema e Saba.
[81] Cfr Scolio n 54, in Vaccari, Un commento, p 172.
[82] In ebraico moderno: “fantasmi”, cfr Gaio Sciloni, Dizionario italiano-ebraico, Tel Aviv 1993, p 324.
[83] Come nell’ebraico moderno: id, p 147.
[84] Cfr La Bibbia di Gerusalemme, p 45, nota c 6.
[85] Cfr Vaccari, Un commento, p 169.
[86] Cfr Vaccari, Un commento, p 202-203.
[87] Cfr 2 Sam 18,18.
[88] Ancora oggi in ebraico il termine “primogenito” si dice bekòr.
[89] Alcuni manoscritti greci riportano infatti il termine ώραι̃α, in ebraico רוּכב (bikùr) o nella versione plurale םירוּכב (bekurìm).
[90] Cfr Vaccari, Un commento, p 203.
[91] Nella Bibbia di Gerusalemme, Giobbe 41,25.
[92] Potrebbe essere stato preso da Simmaco: ου̉κ έ̉στιν έπὶ χοὸς ε̉ξουσία α̉υτου̃.
[93] Che riporta: Non est super terram potestas quae comparetur ei.
[94] Anch’egli di scuola antiochena, e fratello del suo amico Teodoro di Mopsuestia. Cfr Policronio di Apamea, (a cura di) A. Di Berardino, Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, II, pp 426-427.
[95] Cfr Vaccari, Un commento, p 204.
[96] Sull’influenza degli autori orientali sulla teologia di Giuliano, cfr M. Lamberigts, Recent Research into Pelagianism, with Particular Emphasis on the Role of Julian of Aeclanum, 52, 2002, pp 175-198.
[97] Cfr Fridericus Field, Origenis Hexaplorum quae supersunt, in Job, Tomus I, p. LXXV s, Oxford 1875.
[98] Se infatti le dottrine sono riconducibili ad una scuola di pensiero, la grammatica, il lessico e lo stile sono proprie dell’individuo.
[99] Cfr Marcello Marin, Risultati e prospettive del convegno giulianeo, in Antonio Nazzaro (a cura di), Giuliano d’Eclano, cit, pp 415-421.